lunedì 24 gennaio 2011

Offendere il proprio coniuge può portare alla condanna per maltrattamenti

Cassazione Penale, sentenza n. 45547 del 28 dicembre 2010.
 
Offendere il proprio coniuge può configurare l'ipotesi delittuosa di maltrattramento di cui all'art. 572 c.p.c.. Lo ha stabilito la Sesta Sezione penale della Cassazione con sentenza 28 dicembre 2010, n. 45547 con la quale si evidenzia come i comportamenti abituali, caratterizzati da una serie indeterminata di aggressioni verbali, ingiuriose e offensive, ben possono determinare una condanna per il reato di maltrattamento previsto dall’art. 572, c.p..
Come confermato dall’orientamento dominante in giurisprudenza, il reato in discorso consiste nella sottoposizione dei familiari ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita. I singoli episodi che costituiscono un comportamento abituale, rendono manifesta l'esistenza di un programma criminoso relativo al complesso dei fatti, animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo.
Il delitto di maltrattamenti in famiglia consiste in una serie di atti lesivi dell'integrità fisica, della libertà o del decoro del soggetto passivo, nei confronti del quale viene posta in essere una condotta di sopraffazione sistematica e programmata tale da rendere la stessa convivenza particolarmente dolorosa: atti sorretti dal dolo generico integrato dalla volontà cosciente di ledere la integrità fisica o morale della vittima.
Anche le offese possono integrare la fattispecie in questione. Secondo il giudice nomofilattico, infatti, tali condotte, costantemente ripetute, hanno evidenziato l'esistenza di un programma criminoso diretto a ledere l'integrità morale della persona offesa, di cui i singoli episodi, da valutare unitariamente, costituiscono l'espressione e in cui il dolo si configura come volontà comprendente il complesso dei fatti e coincidente con il fine di rendere disagevole e penosa l'esistenza della moglie.
 
 
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI PENALE
Sentenza 16 novembre - 28 dicembre 2010, n. 45547
(Presidente Lattanzi - Relatore Fidelbo)
Svolgimento del Processo
Con sentenza del 2 aprile 2007, emessa dal Tribunale di Bassano del Grappa, P. M. B. veniva riconosciuto colpevole del reato di maltrattamenti nei confronti della moglie, L. S., e condannato alla pena di otto mesi di reclusione, oltre al risarcimento dei danni non patrimoniali in favore del coniuge costituitosi parte civile, liquidati in complessivi Euro 30.000,00.
Con successiva sentenza emessa il 18 giugno 2007 dallo stesso Tribunale l'imputato veniva ritenuto responsabile anche del reato di cui all'art. 570 comma 2 n. 2 c.p., per avere fatto mancare i mezzi di sussistenza alla moglie, omettendo di corrisponderle l'assegno mensile di Euro 4.000,00 stabilito dal giudice civile in sede di separazione giudiziale, e condannato al pagamento di Euro 3.350,00 di multa, così determinata la pena a seguito della sostituzione della pena detentiva in quella pecuniaria; anche in questo caso veniva condannato al risarcimento dei danni patrimoniali e morali in favore del coniuge costituitosi parte civile, liquidati rispettivamente in Euro 100.000,00 e in Euro 15.000,00.
Entrambe le sentenze venivano appellate dall'imputato davanti alla Corte d'appello di Venezia che, riuniti i due procedimenti, confermava integralmente la sentenza del 2 aprile 2007, mentre riformava parzialmente l'altra decisione revocando il capo concernente la quantificazione del danno patrimoniale, rimettendo le parti davanti al giudice civile; per il resto anche questa sentenza veniva confermata.
Contro la sentenza di appello il difensore dell'imputato ha proposto ricorso per cassazione.
Con il primo motivo ha dedotto l'erronea applicazione dell'art. 572 c.p., in quanto la Corte territoriale ha ritenuto la sussistenza dei maltrattamenti con riferimento a semplici episodi di ingiurie rivolte dall'imputato alla moglie in occasione dei suoi rientri settimanali presso l'abitazione coniugale, fatti inidonei a realizzare quel "regime di vita avvilente e mortificante" cui ha fatto riferimento la sentenza.
Con il secondo motivo ha rilevato una contraddizione nella motivazione che individua nelle ingiurie, allo stesso tempo, la causa dei litigi e il comportamento costitutivo dei maltrattamenti.
Con il terzo motivo ha contestato la ritenuta sussistenza del dolo nel reato di maltrattamenti, in quanto i giudici non avrebbero tenuto conto che le ingiurie avvenivano nel corso di periodici litigi tra i coniugi.
Con un quarto motivo il ricorrente ha lamentato che l'affermazione di responsabilità per il reato di cui all'art. 570 c.p. ha riguardato un periodo di tempo (agosto 2004 - settembre 2006) per il quale non vi è alcun riferimento nell'atto di querela, che si limita a chiedere la punizione per le sole inadempienze all'obbligo di versamento dell'assegno verificatesi tra l'agosto e il novembre 2004.
Trattandosi di reato procedibile a querela né il pubblico ministero né il giudice potevano procedere a modificare la contestazione estendendo il periodo in contestazione.
Con il quinto motivo ha censurato la sentenza impugnata per l'omessa pronuncia sulla richiesta continuazione tra i due reati oggetto di condanna.
Successivamente il difensore dell'imputato ha depositato nuovi motivi, con cui ha denunciato l'erronea applicazione dell'art. 572 c.p. e l'omessa motivazione in ordine alla abitualità e persistenza del comportamento ingiurioso posto in essere dall'imputato; la mancata applicazione dell'indulto di cui alla legge n. 241 del 2006; la mancanza di motivazione in ordine alla omessa concessione della sospensione condizionale della pena.
Motivi della Decisione
I motivi con cui il ricorrente, sotto diversi profili, ha censurato la sentenza per aver affermato la sua responsabilità in ordine al reato di maltrattamenti sono infondati.
I giudici d'appello hanno fatto una corretta applicazione dell'art. 572 c.p., ritenendo che i comportamenti volgari, irriguardosi e umilianti, abitualmente posti in essere dall'imputato nei confronti del coniuge, abbiano realizzato un regime familiare e di vita avvilente e mortificante.
Invero, comportamenti abituali caratterizzati da una serie indeterminata di aggressioni verbali ingiuriose e offensive, come quelle realizzate dall'imputato, possono configurare il reato di maltrattamenti; nella specie tali condotte, costantemente ripetute, hanno evidenziato l'esistenza di un programma criminoso diretto a ledere l'integrità morale della persona offesa, di cui i singoli episodi, da valutare unitariamente, costituiscono l'espressione ed in cui il dolo si configura come volontà comprendente il complesso dei fatti e coincidente con il fine di rendere disagevole e per quanto possibile penosa l'esistenza della moglie.
La puntuale ricostruzione dei fatti contenuta nella sentenza impugnata non viene perciò messa in crisi dal tentativo difensivo di operare una valutazione isolata ed episodica delle condotte ingiuriose, che invece, considerate complessivamente, hanno integrato il reato di maltrattamenti.
Infondato è anche il motivo con cui il ricorrente ha contestato l'affermazione di responsabilità per il reato di cui all'art. 570 c.p. perché riferita a periodi non ricompresi nell'atto di querela.
Al riguardo si osserva che quando nel capo di imputazione contenuto nel decreto di rinvio a giudizio relativo ad un reato permanente si contesti una durata della permanenza precisamente individuata nel tempo, quanto meno nel suo momento terminale, il giudice può tener conto del successivo protrarsi della consumazione soltanto qualora vi sia un'ulteriore contestazione ad opera del pubblico ministero ex art. 516 c.p.p. (Sez. un., 11 novembre 1994, n. 11930, P.M. in proc. Polizzi). Infatti, la posticipazione della data finale della permanenza incide sulla individuazione del fatto come inizialmente contestato, comportandone una diversità, sotto il profilo temporale, che influisce sulla gravità del reato e sulla misura della pena e può condizionare l'operatività di eventuali cause estintive.
Nella specie, vi è stata la modifica dell'imputazione da parte del pubblico ministero ex art. 516 c.p.p., ma il ricorrente ha contestato la possibilità di modificare l'imputazione in relazione ad un reato procedibile a querela, in cui il querelante abbia fatto riferimento a condotte avvenute in un certo contesto temporale.
In realtà, la circostanza che vi sia una querela non cambia i termini del problema, in quanto anche in tal caso è possibile una modifica dell'imputazione secondo le modalità sopra indicate. La querela non richiede formule particolari, né la specifica indicazione dei reati configurabili, sicché l'esposizione dei fatti e la richiesta di punizione degli autori sono sufficienti ai fini della procedibilità per il reato ravvisato e oggetto dell'imputazione, che può essere modificata ai sensi dell'art. 516 c.p.p., come è accaduto nel caso in esame.
In relazione alla pretesa applicazione dell'indulto, si osserva che il ricorso per cassazione avverso la mancata applicazione dell'indulto è ammissibile solo qualora il giudice di merito abbia esplicitamente escluso detta applicazione, mentre nel caso in cui abbia omesso di pronunciarsi deve essere adito il giudice dell'esecuzione (Sez. V, 22 ottobre 2009, n. 43262, Albano). Nella specie la Corte d'appello non si è pronunciata affatto, sicché il motivo deve considerarsi inammissibile.
Inammissibile è pure il motivo con cui il ricorrente lamenta la mancata concessione della sospensione condizionale della pena, in quanto non risulta che sia stato fatto valere nell'atto di appello, così come richiesto dall'art. 606 comma 3 c.p.p..
È invece fondato il motivo con cui si lamenta la mancata applicazione della continuazione.
La sentenza ha ritenuto di non applicare la continuazione tra i due reati dal momento che potrà essere valutata in sede di esecuzione. Invero, l'applicazione della disciplina della continuazione in sede di esecuzione ha carattere sussidiario e suppletivo ed è subordinata alla circostanza che non sia stata esclusa dal giudice della cognizione; pertanto, dinanzi ad una precisa richiesta dell'imputato, il giudice della cognizione non può legittimamente rinviare alla fase esecutiva il giudizio sull'identità o meno del disegno criminoso tra i vari illeciti (Sez. II, 16 novembre 2004, n. 50155, Minicucci).
Pertanto la sentenza deve essere annullata limitatamente a quest'ultimo punto, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Venezia, perché prenda in esame la richiesta di applicazione della continuazione.
Per il resto il ricorso deve essere rigettato.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nel punto relativo alla continuazione e rinvia ad altra sezione della Corte d'appello di Venezia per la decisione sul punto. Rigetta nel resto il ricorso.

Nessun commento:

Posta un commento